Tecnologia “con l’anima”: giochi ed educazione
Tecnologia con l’anima? Qualunque cosa possa voler dire per voi, è una tendenza che sto notando, e che mi sembra in crescita – soprattutto dopo i miei due ultimi interventi come formatore, in due contesti molto diversi.
Arrivo da un seminario residenziale di 10gg su storytelling ed educazione in Repubblica Ceca, e poi una settimana di creatività digitale con Minecraft nei Digital Summer Camps per ragazzi ad H-Campus (su cui credo che presto leggerete qualcosa…) e da un po’ di giorni ho in testa questi pensieri.
Umanesimo tecnologico?
Io sono sempre stato uno che faceva il tifo per un impatto positivo, migliorativo, umano della tecnologia: dai tempi dei BBS e delle reti civiche ho visto i computer, le reti, l’internet mettere insieme le persone, permettere loro di dialogare, di apprendere, di scambiarsi conoscenza e informazioni, insomma di fare del bene a sé e agli altri.
Mi sono appassionato alla tecnologia come versione 2.0 dell’umanesimo, insomma: per questo, ad esempio, ero saltato sulla sedia mentre seguivo su Engadget il keynote in cui Jobs presentava l’iPad (mioddio era il 2010?!?) e ad un certo punto tirava fuori questa slide:
Poi i social sono dilagati sulle ali della diffusione di massa dei device connessi, dando visibilità globale all’ignoranza diffusa, al fascismo razzista e rabbioso e all’analfabetismo di ritorno. Tutta roba che ovviamente c’era già, come aveva ben dimostrato la segreteria telefonica di Radio Radicale nel lontano 1993 (!) ma fino ad allora appunto la certezza di farla franca e di non rimetterci la faccia era merce rara.
Per me è stata una mazzata fortissima, accettare che in colpo solo la mia cosa fosse diventata finalmente (?) di tutti, e tra questi tutti fosse compresa una percentuale inconcepibile di stronzi.
Educare alla tecnologia, e poi educare con la tecnologia
Anche per questo ho cominciato a lavorare nell’educazione alla tecnologia, prima, e con la tecnologia, subito dopo – facendo in questi ultimi anni molte cose (faticosissime, malpagate, complicate…) di cui sono fierissimo, dagli interventi Praterie del Web alla ricerca intervento ImageME, alla fondazione di coderdojo Brianza e di CampusLaCamilla.
Ho scoperto di non essere solo, anzi di essere parte di una comunità di simili che si riconoscono al volo, e se possono perdersi in infinite discussioni ad altissimo tasso di nerdismo, di sicuro intanto stanno facendo bene al mondo, cercando di insegnare a una o due generazioni che la tecnologia si può e si dovrebbe padroneggiare ed usare a proprio vantaggio, invece di farsi usare da lei. Inoltre tutto questo lo fanno – lo facciamo – con metodologie fantastiche, che avrebbero anche tanto da insegnare al mondo dell’educazione e della scuola. Questo però è un altro discorso, anche se è il mio chiodo fisso 🙂
Lavorando con educatori, responsabili di gruppi giovanili, insegnanti ecc., sempre di più affronto il tema della gamification: non solo perchè sono un nerd senza speranza ma anche perchè sono convinto, con Jane McGonigal, che la realtà è difettosa e i giochi possono migliorarla, e con James Paul Gee, che l’educazione ha tanto da imparare dai videogiochi.
Giochi che prima non c’erano
Non posso quindi che salutare con gioia l’aumento di videogiochi che cercano di far vivere esperienze in qualche modo educative, di trasportare il giocatore in quei famosi diversi contesti che è così difficile comprendere (quelli della guerra, della fame, dello sfruttamento ecc) per saltare a piedi pari l’idiozia del parlare-senza-conoscere, che è la peggiore piaga di oggi.
Probabilmente è anche il frutto di piattaforme come Games For Change, che dal 2004 lavora per promuovere un’idea di videogiochi che includa oltre al divertimento la capacità di impatto sociale, di cambiamento di prospettiva, di educazione insomma. Forse in questo ultimo periodo stanno maturando i frutti di questa semina, o forse è solo una coincidenza, ma io sono di quelli convinti che le coincidenze non esistono.
L’anno scorso, mentre mi preparavo per il workshop Solidarity goes online and… che ho tenuto a Sarajevo per il kickoff meeting 2015 della Academy of Central European Schools, stavo cercando materiale per ricollegarmi alla tragica storia recente della città, e ho incontrato per caso This War Of Mine. Il gioco del 2014, per la prima volta a mia memoria, presenta la guerra dal punto di vista non-militare, basandosi sulle testimonianze di numerosi civili rimasti intrappolati nel tragico assedio di Sarajevo.
Una via di mezzo tra strategico e simulazione, grazie anche alla sua grafica da fumetto dark riesce a trasportare il giocatore davvero in profondità dentro la tragedia che racconta. Inoltre, gli sviluppatori hanno deciso di donare parte degli incassi a War Child UK, che proprio a partire dal conflitto Iugoslavo si occupa dei bambini nelle zone di guerra. Dopo questa partnership, il gioco ha avuto una espansione (come si dice in gergo, un DLC) che introduce anche dei bambini, nella casa sotto assedio dove si svolge la vicenda.
Liyla and The Shadows of War, di quest’anno, è una app (qui il link per Android) sviluppata da un programmatore palestinese, sicuramente ispiratosi a This War of Mine, oltre che per la grafica, anche per la dinamica. Il gioco, tecnicamente un platform abbastanza breve e semplice, racconta infatti la vicenda di Liyla, bambina palestinese durante l’assedio di Gaza. Anche in questo caso, come nel precedente, il luogo non viene dichiarato, ma chiunque abbia un po’ di familiarità con le intricatissime, difficilissime vicende israelo-palestinesi riconoscerà molti dei fatti più eclatanti. Qui il discorso comincia a farsi interessante: Apple infatti, dopo aver pubblicato il gioco, ha chiesto allo sviluppatore di spostare la app dalla sezione Giochi dell’AppStore a quella News o simili.
Ma allora Liyla è un gioco o no? Decisamente sì, come sostiene anche questo editoriale della testata specializzata Multiplayer.it sul tema, e aggiungo io, proprio per questo ha attirato l’attenzione. La richiesta di Apple è poi rientrata, diversamente a quanto era successo qualche anno fa al titolo made-in-Italy PhoneStory.
Il gioco per Android e iPhone del 2011 era una forte denuncia dell’impatto ambientale e sociale dietro al reperimento delle materie prime in Africa e alla costruzione in Cina degli iPhone, ed è stato unilateralmente ritirato dall’AppStore di Apple – se ben ricordo, per la prima volta nella sua storia. Gli sviluppatori hanno mantenuto il gioco disponibile sul loro sito, e destinato parte degli incassi ai movimenti che contrastano lo sfruttamento del territorio e del lavoro dietro alla produzione dei device.
Alcune settimane fa, sempre War Child UK, evidentemente capitalizzando la lezione di This War Of Mine, ha lanciato HELP: The Game, in vendita sulla piattaforma Steam. In sostanza l’organizzazione ha chiesto a diversi produttori di giochi più o meno indie (tra cui spicca Rovio, quella degli Angry Birds) di donare una settimana di tempo e conoscenza, per creare una serie di giochi da vendere insieme (ossia, in gergo, un bundle) destinando l’intero incasso a progetti a favore dei bambini. Alcuni dei produttori hanno semplicemente donato un gioco, altri si sono sforzati di costruire qualcosa che avesse un impatto simile ai titoli descritti sopra.
Savana descrive la vita dei bambini di un villaggio in Mozambico, mentre Never Mine è una dimostrazione d’uso di un attrezzo fantastico che non conoscevo, e ho scoperto proprio grazie al gioco. Si tratta del Mine Kafon, uno strumento mosso dal vento e in grado di far esplodere in sicurezza le mine anti-uomo lasciate nel terreno. E’ stato creato dal giovane maker Massoud Hassani, nato a Kabul e cresciuto in giro per il mondo, fino a laurearsi in Olanda nel 2011 proprio con Mine Kafon come progetto di tesi, e realizzandolo poi con una campagna su Kickstarter. Qui Hassani ne parla alla CNN, mentre questa è una immagine del gioco, in cui appunto un Mine Kafon viene liberato in un terreno minato e va in qualche modo supportato nel suo lavoro:
Malkia è la storia di una donna con otto bambini, resa vedova da una guerra, che deve ingegnarsi per sfamare e far crescere i figli, raccogliendo risorse con lunghi viaggi a piedi nei dintorni, trasformandole da sola o con l’aiuto della famiglia, fino a costruire una microeconomia locale che potrà poi anche avvantaggiarsi del supporto esterno di progetti di microcredito.
Per concludere la carrellata, Emily: Displaced è la storia di una bambina e della sua famiglia, che a partire da un contesto di guerra seguono la lunga e pericolosa strada di tanti migranti, cercando rifugio e salvezza in terre lontane.
Non posso poi non citare qui i miei quasi-vicini-di-casa WeAreMuesli, che come dicono loro, fanno unconventional storytelling attraverso i videogiochi, a partire dal loro debutto Venti Mesi. Si tratta di una ricostruzione storica dei venti mesi tra il 1943 e il 1945, in cui l’Italia era per metà occupata dalle forze angloamericane, per metà sotto il controllo nazi-fascista della Repubblica di Salò, il re era scappato a sud dagli americani e in tutto il centro nord si erano sviluppati gruppi di resistenza armata alla dittatura. Il gioco è stato sponsorizzato dall’amministrazione comunale di una delle capitali di questa resistenza, la città industriale di Sesto San Giovanni, premiata con la medaglia d’oro al valor militare per quei fatti. VentiMesi è una serie di dialoghi a scelta multipla, basati su testimonianze raccolte da cittadini che erano lì in quegli anni, che hanno partecipato alla resistenza o l’hanno supportata.
Oltre a questi titoli, e agli altri che magari vorrete segnalarmi, ho appena scoperto un nuovo esempio di gamification di comportamenti positivi, che voglio segnalare anche se non è esattamente lo stesso di quanto raccontato finora.
Si tratta di YouHero, un’app sviluppata tra Italia e Londra, in cui si offre o chiede aiuto su vari argomenti, con un modello simile a quello delle banche del tempo (ma meno complicato e… cannibalizzante di certe sue realizzazioni made in Italy). Dal SOS di aiuto per piantare un chiodo al richiedere servizi professionali come l’avvocato o il barbiere, si tratta di una tecnologia per ricostruire relazioni di buon vicinato e ricostruire tessuto sociale locale ai tempi delle città dormitorio, come provano a fare anche le varie comunità di social street in Italia e in giro per il mondo.
A questo punto ci sta una precisazione: è evidente che in tutti questi esempi l’efficacia è data dalla giocabilità (più o meno alta) dei prodotti, e che le abilità di gamification non si improvvisano – o se lo si fa, se ne pagano le conseguenze. Magari alcuni di questi titoli potranno anche sembrare noiosi – io non li ho provati tutti, ma mi sono appassionato a tutti quelli che mi è capitato di giocare. In ogni caso, questa è una caratteristica imprescindibile: i giochi sono fatti prima di tutto per giocarci, e se non sono in qualche modo appassionanti non ci giochi. Il cosiddetto serious gaming, se non è gaming non mi interessa!
Inoltre è il caso di dire che non sono affatto contrario a priori ai giochi “di guerra”: anche se non sono un amante degli sparatutto più in voga, non ci vedo niente di male che una persona consapevole e dell’età giusta si faccia passare nervosi o noia andando in missione con un’arma (virtuale) tra le mani. L’importante è essere consapevoli di quel che si sta facendo, e soprattutto farlo all’età adeguata. Le indicazioni PEGI da questo punto di vista possono aiutare, ma è lavoro dei genitori, quello di controllare e verificare a cosa giocano i propri figli – non si devono incolpare i giochi così come non si può imputare ad una macchina di essere guidata da uno senza patente.
Detto questo, sono curioso di vedere se il trend continuerà; cercherò di aggiornare il post di conseguenza, e se qualcuno tra chi legge vuol contribuire è sempre il benvenuto.