Gaming, educazione, narrazione: una conferenza per nerd
Sono reduce da un intervento su gaming, educazione e narrazione, che è stato fortunosamente inserito nel programma di ModenaNerd (o meglio, nel programma non c’era, ma insomma all’evento io sono intervenuto comunque), su invito di coderdojo Modena.
Davanti ad uno sparuto pubblico, che comunque conteneva anche un cosplayer di Michael Jackson versione Thriller 😀 (camicia rossa e calzette bianche, per intenderci…) e che quindi posso reputare eccezionale, ho raccontato alcuni degli elementi che con il mio gombaah Carmine Rodi Falanga stiamo elaborando e sviluppando, e che riguardano tra l’altro l’approccio che in gergo ammmericano potremmo definire game-based learning.
Partendo dall’impatto cruciale del gaming che lo rende un fenomeno assolutamente importante, da qualche tempo stiamo riflettendo su quali siano i punti in comune tra i giochi, e per quanto mi riguarda in particolare i videogiochi, e le forme di narrazione più tradizionali. Già da un paio d’anni comprendiamo tutte queste diverse modalità di racconto nei nostri corsi di formazione europei dentro all’etichetta (abusatissima) di storytelling, per rendere un po’ più chiaro quello di cui si parla… ma c’è molto di più, e vale la pena esplorarlo più in profondità.
Ad esempio, prendendo spunto dai noti elementi che Propp ha individuato nella struttura della fiaba, possiamo divertirci a ritrovarne almeno alcuni in tanti videogiochi di ieri e di oggi – ad esempio in questa conferenza mi sono divertito a farlo con il maledettissimo Ghosts’N Goblins, che ha saputo estorcermi ore e ore di vita (nonché una montagna di monetine, e innumerevoli forme di improperio artistico di alto livello…) senza che riuscissi mai ad andare oltre il secondo livello.
Nonostante i rigidi limiti hardware del tempo (stiamo parlando di cabinati arcade nel 1985…) in questo titolo più che in molti altri la struttura narrativa riesce ad affiorare spesso sotto la dinamica del gioco, e questo è secondo me uno dei motivi del suo successo.
Intanto l’allontanamento iniziale, che nello schema di Propp fa muovere l’intera vicenda, è costituito nel gioco da una situazione alquanto inusuale, che vedete qui sopra: il nostro protagonista, il Cavaliere Arthur (che grande fantasia, alla Capcom negli anni ’80…) si è allontanato nel senso che si è infrattato, in una notte senza luna, con la sua classica bella principessa… niente meno che in un cimitero!
L’aiutante dell’antagonista, un demone che a quanto pare è il boss finale del quinto livello (o almeno così raccontano i pochi che dicono di essere arrivati fino a lì…) realizza il suo danneggiamento iniziale rapendo la principessa e causando quindi la reazione e la partenza del cavaliere (che dall’essere in mutande si riveste della sua armatura 😀 ).
E’ a questo punto che la narrazione lascia il posto al gioco, e il giocatore (in questo e in molti altri titoli, soprattutto di quel periodo iniziale…) viene chiamato ad impersonare l’eroe, nelle cruciali fasi di reazione e trasferimento, ossia il lungo viaggio pieno di prove da superare e nemici da sconfiggere, supportate dai vari oggetti magici acquisiti sotto forma di potenziamenti, nuove armi, scudi di difesa eccetera.
In questo viaggio naturalmente il premio o ricompensa finale è, esattamente nella terminologia di Propp, la principessa che una volta eliminato l’aiutante dell’antagonista, al termine del livello 5, deve essere liberata sconfiggendo l’antagonista è vero e proprio: un demone con due facce che è il boss finale del gioco.
L’happy ending della narrazione viene svelato da quella che non è ancora nemmeno una cut-scene, ma soltanto una schermata riepilogativa con un testo e una piccola immagine (qui sopra), che lascia presagire il fatto che, se Arthur ha coraggio, potrebbe ripartire, per riprendere dall’inizio il suo viaggio. Manca la più complessa funzione del falso eroe e la sua usurpazione del ruolo…. ma è evidente la necessità di semplificare, anche solo per i limiti hardware di cui abbiamo già accennato.
Dato che abbiamo citato le cut-scene, è bene sottolineare che questa è proprio la forma della narrazione in-game dei titoli più moderni, mentre tutto quello che abbiamo trattato finora, dentro Ghosts’n Goblins viene più suggerito che effettivamente raccontato, da una breve intro iniziale e appunto dalla schermata finale.
la cut-scene di apertura di un gioco moderno, XCOM 2 (2016), rende bene evidente che i giochi sono un prodotto di narrazione.
Per arricchire la narrazione gli sviluppatori dei videogiochi delle origini si sono spesso affidati a formule anche molto altre rispetto ai giochi stessi, e per combinazione (l’ho già detto stavolta che non credo alle combinazioni, e che le coincidenze non esistono? 😀 ) nell’intervento successivo al mio, Francesco Toniolo ha proprio parlato di questo, ossia la correlazione tra videogiochi e fumetti – riprendendo il suo testo Pixel tra le nuvole. Il libro racconta per l’appunto di come Capcom e le altre case produttrici del mondo arcade originario usassero anche i cabinati stessi per disegnarci sopra cut-scene e vignette, e sviluppassero poi (con un grande boom per il mercato delle prime console “da casa”) confezioni o brochure promozionali disegnate e a fumetti, con il compito di arricchire e potenziare la narrazione che doveva fare da background ai loro titoli, quasi sempre comunque lasciata in grandissima parte all’immaginazione dell’acquirente.
Tornando alla conferenza, è stato interessante anche fornire alcuni dei dati che spesso utilizziamo per far rendere conto del livello di investimento di energie che viene fatto sui videogiochi. Ad esempio, la quantità di ore utilizzate dalla comunità dei suoi “abitanti” per giocare a World of Warcraft: il totale assomma a più di 6 milioni di anni!
Si tratta né più né meno del tempo che la specie umana ha impiegato ad evolversi dai primati… credo, insieme a molti altri, che tutti dovremmo provare ad immaginarci quali risultati potremmo raggiungere, portando una tale quantità di energia e tempo, da parte di tanti esseri umani, in una direzione non solo ludica, ma anche capace di migliorare e arricchire le nostre vite…
Proprio per riprendere questo tipo di domande mi sono affidato a due testi sacri del dibattito sull’utilizzo dei giochi nell’educazione, ossia quello di James Paul Gee e il famoso Reality is broken di Jane McGonigal.
Da qui vengono anche indicazioni preziose sul perché i videogiochi siano uno strumento capace di attirare, come nell’esempio di WoW, 6 milioni di ore-uomo di attenzione, dedizione, ed energia, e in particolare sulla loro capacità di dare feedback e di offrire la possibilità di imparare dai propri errori.
La connessione con il campo educativo, da qui sarebbe lampante – e proprio il fatto che invece non venga colta come tale mi sembra particolarmente preoccupante, in un momento in cui tutti si riempiono la bocca di sproloqui sulla buona scuola, sui tablet o il cellulare in classe e tutto il resto (con la solita inevitabile contrapposizione tra favorevoli e contrari, che da Aboccaperta in poi accompagna qualsiasi idiozia venga discussa in questo paese…).
I testi citati peraltro non sono usciti ieri: quello di Gee ha la bellezza di 13 anni, mentre quello di McGonigal ne ha già sei, anche se per il concetto di innovazione che gira dalle nostre parti, queste età decisamente non sono sufficienti a rendere i libri citati parte di un qualsivoglia dibattito su come si potrebbero cambiare o migliorare le cose.
In ogni caso, per concludere il quadro, se i videogiochi sono come dimostrato strumenti di narrazione, perchè non accostarli ad altri prodotti di narrazione, come ad esempio i romanzi, e vedere che ragionamenti ne possono saltar fuori?
Ad esempio, siamo tutti d’accordo (spero!) che American Tabloid sia un capolavoro della narrativa USA, ma forse non è esattamente un libro di lettura per dodicenni, a cui nessuno si sognerebbe di regalarlo. Ma allora perchè agli stessi dodicenni viene regalato un gioco come, per dire, GTA 5 senza fare una piega?
Considerare i giochi come prodotti (anche) narrativi potrebbe finalmente cancellare il pessimo alibi di tanti adulti davanti agli oggetti tecnologici (“di quelle cose lì non ci capisco niente…”) e portarli infine ad occuparsi del contenuto, che come dicono gli ammmericani è il king. E allora, regaleresti a tuo figlio dodicenne una narrazione a base di furti d’auto, prostituzione, spaccio di droga, armi eccetera? Questione risolta.
Infine, non poteva mancare in questo discorso la struttura narrativa per eccellenza, ossia il monomito definito nel viaggio dell’eroe di Joseph Campbell. È stato anche fin troppo facile tratteggiare velocemente la struttura del monomito, applicandola alla mia mitologia di riferimento, ossia… a Star wars 🙂
Abbiamo concluso sottolineando la necessità di educare ad essere creatori di contenuti. Si può fare con qualunque strumento, da carta e penna a linee di codice; si può produrre qualunque tipo di contenuti, da giochi narrativi a narrazioni che possono diventare giochi, vista la vicinanza che abbiamo tratteggiato – anche andando oltre la formula, a quanto pare obbligatoria oggigiorno, delle materie STEM – per sconfinare in quelle che Jobs, durante la presentazione dell’iPad, aveva chiamato arti liberali.
Il coding stesso è un terreno di gioco, non una disciplina, cone ci ricorda il blog dei creatori di Scratch, la piattaforma di coding più usata da scuole e dintorni, “adottata” dal movimento internazionale dei coderdojo eccetera eccetera.
Io, di mio, aggiungo che è sempre stato prerogativa dei bambini costruirsi i propri giochi, ma ad un certo punto sembrava fosse diventato impossibile, visto il livello irraggiungibile dei prodotti industriali – la tecnologia ora rimette nelle loro ( e nelle nostre…) mani la possibilità di farlo, quindi sfruttiamo tutto quello che abbiamo a nostra disposizione!